Nel suo saggio La società della stanchezza (2010), il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han offre una riflessione penetrante sulla società contemporanea e sulle dinamiche psicologiche e sociali che la caratterizzano. Han identifica nella modernità avanzata una condizione di sovraccarico psicofisico, in cui l’iperproduttività e la competizione spingono gli individui verso un’esistenza frammentata, caratterizzata da una stanchezza costante e da una perdita di senso. In quest’opera, Han denuncia il passaggio dalla società disciplinare, tipica dell’epoca moderna e descritta da Michel Foucault, alla società della prestazione, in cui il soggetto è spinto a divenire imprenditore di se stesso, portando alla nascita di una nuova forma di sfruttamento autoimposto e interiorizzato.
Dalla società disciplinare alla società della prestazione
Han individua un cambiamento fondamentale nella struttura del potere sociale: dalla coercizione esterna tipica della società disciplinare si è passati a una forma di controllo interiorizzata. Nella società disciplinare, il potere esercitava un controllo diretto, limitando i comportamenti degli individui tramite regole, istituzioni e imposizioni. La società della prestazione, invece, si fonda su una forma di potere più subdola: anziché reprimere, essa incentiva gli individui a migliorarsi continuamente, esortandoli a divenire sempre più produttivi e performanti.
Secondo Han, il soggetto contemporaneo è spinto a perseguire obiettivi ambiziosi e a misurare la propria identità sulla base delle prestazioni e dei risultati raggiunti, senza percepire questo stimolo come una costrizione esterna. Tale spinta incessante verso l’auto-miglioramento è percepita come una scelta personale, ma finisce per divenire una forma di pressione psicologica, portando l’individuo a un costante senso di inadeguatezza e di insoddisfazione.
Il “positivo” e la tirannia della libertà
Han introduce il concetto di “positivo” per descrivere una società che non impone limiti esterni, ma che spinge all’eccesso, all’illimitato, al sempre più. Questo “positivo” si manifesta in ogni aspetto della vita: l’eccesso di stimoli informativi, l’eccessiva ricerca di risultati, il continuo accumulo di esperienze e di performance. Han critica l’illusione della libertà assoluta come un inganno: nella società della prestazione, gli individui non sono liberi nel senso autentico del termine, ma schiavi di una continua auto-sfruttamento. L’ideale moderno di libertà si trasforma quindi in un obbligo alla prestazione, che non risparmia nessuno e che porta alla diffusione di nuove patologie, come la depressione, il burnout e l’ansia.
Stanchezza e patologie dell’eccesso
Il concetto di stanchezza, inteso da Han non solo come fatica fisica, ma come uno stato di svuotamento interiore e di impoverimento spirituale, è centrale nella sua critica. Han identifica il burnout e la depressione come sintomi distintivi di questa nuova società, in cui la fatica non è più la conseguenza della repressione di desideri o di bisogni, ma del loro esasperato soddisfacimento e della mancanza di limiti. La società della prestazione non conosce una dimensione del “no” o del limite; tutto deve essere costantemente ampliato, potenziato, accelerato.
La stanchezza di cui parla Han è dunque una condizione esistenziale, che emerge dal vivere sotto un costante stato di auto-imposizione, in cui non si è mai all’altezza degli standard autoimposti. Questa stanchezza è sia psicologica sia fisica, ed è caratterizzata da una sensazione di disorientamento e di vuoto. Di fronte a una società che valorizza solo la produttività, l’individuo si trova imprigionato in un circolo vizioso di aspettative in crescendo e di autocritica, senza vie di uscita.
La soluzione: un ritorno alla “vita contemplativa”
Han suggerisce che una possibile via d’uscita da questa condizione di stanchezza cronica risieda nel riscoprire la dimensione contemplativa della vita. Mentre la società della prestazione celebra solo il fare e il raggiungere obiettivi, Han sostiene la necessità di riscoprire il valore del “non fare”, dell’attesa e della riflessione, concetti che sono stati progressivamente svalutati. Egli attinge alla tradizione filosofica orientale per proporre un’alternativa: la quiete, l’ascolto e la capacità di accettare i propri limiti.
La vita contemplativa, secondo Han, non è semplicemente il ritiro dal mondo, ma una forma di resistenza al ritmo incessante e oppressivo della società della prestazione. È solo attraverso un ritorno alla quiete, al silenzio e alla contemplazione che l’individuo può riconnettersi con la propria identità profonda e sfuggire alla trappola dell’auto-sfruttamento.
La società della stanchezza di Byung-Chul Han è una riflessione acuta e provocatoria sulla condizione dell’uomo contemporaneo, intrappolato in una spirale di auto-sfruttamento e di ricerca ossessiva di successo. La sua critica alla società della prestazione e all’illusione della libertà individuale rivela l’aspetto alienante e oppressivo della modernità, proponendo al contempo una soluzione controintuitiva: riscoprire la vita contemplativa e il valore del “non fare”. Attraverso questa analisi, Han ci invita a riflettere sulle nostre scelte di vita e a prendere coscienza delle dinamiche invisibili che governano il nostro rapporto con il tempo, la produttività e la libertà.
Fonti
- Han, Byung-Chul. La società della stanchezza. Nottetempo, 2010.
- Lazzarato, Maurizio. La fabbrica dell’uomo indebitato. DeriveApprodi, 2012.
- Foucault, Michel. Sorvegliare e punire: Nascita della prigione. Einaudi, 1976.
- Rosa, Hartmut. Accelerazione e alienazione. Einaudi, 2015.